venerdì

Le sorrido

Tornare a casa dei genitori, anche solo qualche giorno, vuol dire tornare indietro nel tempo di qualche anno. Anche più di 10 anni, alle volte.

E faccio un sorriso allora, se mi sveglio tardi la mattina e mia madre mi ricorda che mi ha sentito sveglio, al computer, fino alle 2 di notte.
Me lo dice con quello stesso tono d’ammonizione con cui me lo diceva tanti anni fa, quando il letto da cui mi sono alzato oggi era il mio letto e uscivo di corsa per prendere l'autobus, per andare a scuola.
- "Ciao Mamma, vado a scuolaaa!"
- "Copriti beneeee, fa freddoooo!"

Mi ha fatto il caffellatte. E' già pronto, caldo, sulla tavola.
Le sorrido. Non capisce perché, mia mamma, che si riprende il suo ruolo di mamma. Perché essere mamma non cambia nel tempo. Neanche dopo dieci anni, o venti o persino trenta.

lunedì

Monitor “partenze"

Il monitor “partenze” lo dava al gate 11.
Destinazione: John Fitzegerald Kennedy Airport.
New York (la grande mela).
Imbarco immediato.

Le porte scorrevoli si aprono e do una sbirciatina. Il finger si restringe e alla fine curva leggermente. I passeggeri svoltano e poi scompaiono.
Non posso vederlo, ma alla fine del finger si sa cosa c’è.
L’abete del Rockfeller Center, la pista di pattinaggio in Central Park, lo skyliner di Manhattan, i musical di broadway, santa claus ai Macy’s, “Have yourself a merry little Christmas” di Frank Sinatra, “Santa Claus is coming to town” di Bing Crosby.
E la neve.

Prima o poi.
Prima o poi…

Ho imboccato il gate 3. Il mio.
Alla fine del finger ho trovato “I’ll be home for Christmas” cantata da Tony Bennett.
Superlativa! Davvero eccezionale.


venerdì

La gente vuole natale con la neve

Ed è arrivato il freddo, quello atteso.
Che ti fa uscire 10 minuti prima, la mattina, per raschiare la brina ghiacchiata sul parabrezza.
Ma in fondo, “la gente vuole natale con la neve”.

La valigia è pronta.
E’ ai piedi del letto.
L’ho appena pesata sulla pesapersone che in realtà ho comprato diverso tempo fa proprio come pesavaligie. Ci siamo: “under 20”.

Domani ultimo giorno di lavoro,
poi è davvero Natale.

martedì

I mari che volgono ad Est

Ho visto i mari che volgono ad Est.
All'alba, punti lo sguardo sull’orizzonte,
e intravedi già come sarà il tuo domani.

venerdì

Hai scritto la letterina a Babbo Natale?

Ho incontrato il matto, oggi, sotto casa.
Mi ha fermato.
Ha poggiato una mano sul mio braccio. Lo lascio fare, ho imparato che è innocuo.
Si è avvicinato all’orecchio e mi ha chiesto “Hai scritto la letterina a Babbo Natale?
Ho mollato la presa e mi sono messo a ridere.
Gli manderò un’email” gli ho risposto.
Cosa gli manderai?” urlava mentre mi allontanavo.
Un’emaiiiil… le legge le email no?”

giovedì

Cose da una volta

Cose da una volta. Una volta sola. Una e basta.

Il primo anno di università (ci vuole troppa incoscienza).
L'ottavo anno di università (troppa pazienza).
Un anno e mezzo senza amici (neanche uno).
Un capodanno a casa di “amici di altri” (tutti rigorosamente a coppie).
Una lettera per convincerla a tornare (non è tornata, per fortuna).
Un viaggio in treno durato tutta la notte (con febbre a 39).
Il blue tornado (a Gardaland).
Nuotare nel proprio vomito (fiumi di vodka alla festa di carnevale)
In prima linea, in attesa dell'apertura dei cancelli per il concerto, dalle ore 14 (il 16 agosto).
Charles Bukowski (un paraculo sopravvalutato).
Nanni Moretti (un radical chic insopportabile).
La sveglia delle sei (sei e quindici).
Andare a letto presto per far durare meno una giornata (giorni buttati nel cesso).
Cucinare la salsa di pomodoro senza coperchio (la pittura astratta non è poi un granché in cucina).

E poi altre.
E altre ancora che devo ancora fare: una volta, una sola.

lunedì

Nell'oscurità di una galleria

5 Dicembre.
E' tempo di Tchaikovsky.
E' tempo dei valzer dai sapori natalizi de lo schiaccianoci.
Ascolto l'apoteosi finale con gli auricolari e viene solo voglia di trovarsi nell'oscurità di una galleria di teatro per sentire vibrare il torace, nel finale, sotto ai colpi pomposi dei piatti e dei tromboni.




giovedì

Shhhh

La parte più difficile di “questo viaggio chiamato vita”, per me, è l’irruenza. Va domata e non è facile, perché è un istinto.

E’ tutta una questione di tempi.
C’è un tempo per parlare e un tempo per star zitti.
Il segreto è imparare la giusta sequenzialità.

Ad esempio, adesso ho parlato.
E mi sembra di aver detto tutto.
Ora quindi non resta che il silenzio.
Shhhh.

martedì

Che poi già lo so

Che poi già lo so, mi rileggerò tra 3 anni e al solito penserò “cosa cazzo scrivevo? E soprattutto come cazzo lo scrivevo?”.

giovedì

Sto al momento scegliendo le scarpe

Come un interrogatorio, ti sfinirò.
Avrò voglia di conoscere ogni istante della tua vita, anche il più anonimo. Mi piacerà sapere quanto vicino ti sono passato, quanto lontano.
Per cosa hai pianto? Per chi invece non è valsa la pena?
Penderò dalle tue labbra quando inizierai una frase con “ho imparato che” o con “sai cosa volevo dirti?”.

Ti chiederò dove sei stata e cosa hai fatto tutto questo tempo.
E se mi chiederai altrettanto, ti risponderò che sono stato impegnato a scegliere il vestito migliore per il giorno del nostro incontro.

Le scarpe. Sto al momento scegliendo le scarpe. Ho già preso tutto il resto.
Per le scarpe prenderò tutto il tempo che serve.
Dovranno essere belle. Dovranno essere di classe.

venerdì

Quel silenzio che rimane quando una persona recita un addio

Eravamo seduti ad un tavolo. Si beveva la solita birra. Ed è arrivata Margherita.
Io tenevo nel palmo di una mano un pugno di noccioline salate, con l'altra le mangiavo.
E' arrivata e ha chiesto l'attenzione di noi tutti. “Scusate, solo 5 minuti” ha detto.
5 minuti per salutarci.
Dopo le ultime vicende e le litigate, la misura era evidentemente colma.

Ha iniziato con il tono di chi ha pianificato un addio e lo ha pianificato eliminando ogni traccia di rancore.
Fredda razionalità nel rimarcare, che dopo anni di avventure passate insieme, fosse arrivato il momento di proseguire su strade diverse.
Ha avuto un pensiero per ognuno di noi e l'augurio che questa comitiva continui unita ancora per tanto altro tempo. Non sembrava neanche la stessa di quella delle ultime litigate, delle urla davanti a tutti, delle offese gratuite. Ci si sarebbe aspettati il classico fragore di una porta sbattuta, a dover immaginare quel momento.

Poi le è scesa qualche lacrima di nervosismo, nel ripercorrere e sorvolare sui fatti delle ultime settimane. Ha guardato in alto, ha spostato la pupilla all’insù per trattenere con ogni forza tutte le lacrime che poteva, e ha ritrovato così il controllo di quello sfogo e di se stessa.
E' andata via quando ho finito le noccioline e in mano non è rimasto che sale. Sale fine e dal gusto pungente
Ho guardato gli altri. Gli altri ammutoliti si sono guardati tra loro.
Ho strofinato le mani per mandare via il sale. Ho bevuto un sorso per portar sollievo alle mie gengive incazzate.

Quel silenzio che rimane quando una persona recita un addio e va viene nervosa da un gruppo... quel silenzio fa un certo effetto.
Fa un certo effetto se nessuno proferisce parola. Se non viene spesa una parola d'obbiezione, se qualcuno è persino soddisfatto.

Ho riempito il palmo di noccioline, “altre due e poi basta” mi sono detto, "altre due e torno a casa".

giovedì

Una volta, durante un sogno, ho scritto un romanzo

Una volta, durante un sogno, ho scritto un romanzo.
Un romanzo tutto d’un fiato. Dal prologo alla conclusione, colpi di scena inclusi.
Prendeva vita da solo e io mi dicevo “sarà una figata”.

Non ricordo nulla di quel romanzo. Si è dissolto, come si dissolvono i sogni.
Ricordo solo che è successo. In una notte, non so quale fosse.

Ci ho pensato diverse volte. Ho cominciato anche a dubitare che io non abbia sognato il romanzo, ma che abbia sognato di scrivere un romanzo.
C’è una sottile differenza, ma fa la differenza.
In fondo come si fa a stabilire cosa in un sogno è reale e cosa è appunto un sogno?
La mattina seguente ho ricordato di aver sognato di aver scritto un romanzo, ma non ricordavo il romanzo.
Ricordavo di aver detto, nel sogno, “sarà una figata” ma forse ho solo sognato la sensazione che fosse una figata. Forse non c’è stato mai nessun romanzo, nessuna trama, neanche l’ombra.

Eppure può succedere. E se per una notte, solo una, avessi avuto in testa la storia, che a pubblicarla, sarei diventato famoso?

Non è impossibile.

Paul McCartney!
Una mattina Paul McCartney si sveglia e corre al pianoforte a suonare un pezzo.
Immagino come l’abbia fatto, mi sembra di vederlo. Senza neanche dire “buongiorno”, scapigliato, con gli occhi semichiusi e la bocca impastata. Con l’ansia di non riuscire ad acciuffare qualcosa che in pochi minuti svanisce come neve al sole, come un’ispirazione, come un sogno appunto.
Il primo pensiero di Paul fu “è mia o ho riprodotto una canzone che ho già sentito da qualche parte?”. Dopo qualche ricerca, fu chiaro, si trattava di un inedito. Si trattava di Yesterday.

mercoledì

Se guadagnassi 2000 euro

Oggi a lavoro è stata una di quelle giornate durante le quali penso:
<< se guadagnassi 2000 euro, a fine mese direi "vabbè tanto guadagno 2000 euro, chissenefrega">>

sabato

Magari solo “ciao, buonanotte"

Quando ci vediamo per la cena?

Cena?! Chi ha parlato di cena?
Le avevo detto “Senti, ti va una di questa di andare a mangiare qualcosa mentre mi parli del tuo viaggio?”.
Sì insomma una cosa senza chissà quali aspettative.
“Cena” è diverso. La parola “cena” cambia tutto e non si può correre il rischio di dire "cena" per indicare il pasto della sera.

“Ci vediamo per la cena” vuol dire che ti vengo a prendere sotto casa in macchina, magari avendo lavato la macchina. Vestito con una camicia stirata con cura per 20 minuti buoni.
Cena vuol dire una tavola apparecchiata su una tovaglia di buona stoffa, due flute, un prosecco, piccoli bocconi intervallati da frequenti passate di tovagliolo sulle labbra. Una passata elegante, con la schiena ritta e la punta del tovagliolo come a tamponare con delicatezza.

Io avevo in mente sicuramente una cosa diversa.
Io pensavo ai gomiti alti nel tagliare con il coltello, un masticare famelico dopo una giornata di lavoro, e tovagliette di carta.
Sì insomma, si mangia, si parla, ognuno paga per sé e poi “il dopo” si vedrà al momento. Magari poi alla fine avrò solo voglia di andare a casa a dormire.
Magari solo “ciao, buonanotte”.

domenica

Ci lasciavamo trasportare in un dolce naufragare

Io e Mara, a volte ascoltavamo musica classica.
Dopo aver fatto l’amore.
Stesi sul letto, nudi. Con ancora il sudore sulla pelle. Distrutti e appagati, quella musica ci avvolgeva fino a toccarci corde emotive inesplorate.

Gymnopedie, ad esempio. Non riesco ancora a definire la potenza di quelle poche note, lente e cadenzate.
Se l’ascolto provo malinconia, tristezza, angoscia e poi di nuovo malinconia.
Dopo aver fatto l’amore tutto questo è amplificato. Per dieci, cento… mille volte!
Questione di “chimica” dicono.

Io e Mara, in silenzio, ci lasciavamo trasportare in un “dolce naufragare”. Ed era come fare l’amore due volte.

Tutto questo avrei voluto spiegare a Bianca.
Bianca non apprezza la musica classica. Dice che si annoia ad ascoltarla.
Chissà se Bianca ha mai sentito Gymnopedie.

Ma non è importante.

Ascolto Gymnopedie da solo e penso a Mara.
Anche adesso provo malinconia, tristezza, angoscia e poi di nuovo malinconia.



martedì

L’ho scritto in un pezzo di carta

Avevo qualcosa da dire.
L’ho scritto in un pezzo di carta e l’ho messo in tasca.
Adesso in qualche tasca ho qualcosa da dire.

mercoledì

Io non ho vissuto in una sola casa

Ho sentito che se si vogliono ricercare emozioni intense, viscerali, provenienti dal più lontano, un modo è fare visita alla casa in cui si è nati, in cui si è cresciuti da piccoli.
Per tutti quelli che sono cresciuti in una sola casa questo non vale. Magari ci vivono ancora o è diventata la casa dei “nonni”.
Ma io no. Io non ho vissuto in una sola casa.
Noi abbiamo traslocato. Eravamo in affitto in quella casa, proprio come lo sono io adesso in questa.
Ci siamo rimasti per due rinnovi contrattuali e qualcosa in più. Una dozzina d’anni, insomma, più o meno, prima di ricevere la notizia che l’avremmo dovuta lasciare. Era un pomeriggio d’estate. Giocavo con i lego quando ci venne a fare visita il proprietario. Quando andò via, mamma piangeva. La guardavo piangere. Con i lego in mano, la guardavo piangere.
Io piansi dopo. All’inizio tutto quel via vai di gente con scatoloni in mano sembrava una festa. Poi la casa rimase vuota, senza più niente. E io senza un amico. Solo eco. “Ciao casa…. ciao”.

Anche se non era casa nostra, quella rimarrà per sempre la casa dell'infanzia, mia e di mio fratello.
Deve rappresentare un luogo importante anche per i miei. Il primo tetto dopo il matrimonio. Due fiocchi azzurri appesi alla porta. Sono i momenti di una vita. Sì, devono essere quelli i momenti veri di un’esistenza. Insieme a tanti altri, certo. Ma quelli di più.
Mia mamma, non a caso, racconta ancora oggi che nella sua dimensione onirica, si ritrova a vivere ancora in quella casa.

E’ incredibile come un luogo possa imprimersi così forte nel nostro vissuto.
Se chiudo gli occhi sono in grado di ricostruirlo mattone per mattone: la disposizione dei mobili, la vista dalla finestra di camera mia, la piastrella scheggiata del bagno.

L’impianto stereo in sala era alto quanto me, si può dire.
Alla fine degli anni 80, e a cavallo dei 90, era un pezzo d’alta tecnologia che pochi potevano vantare di possedere. E noi ce l’avevamo! Con il lettore di compact disc.
Mi sembra di sentire le note di “forever” dei Queen, uscire dalle casse.
Strumentale in assolo di piano e violini nella seconda parte. Non mi sorprende, a mio padre piacciono i Queen.

Eccolo! Lo vedo mio padre, è lì, ascolta la musica in piedi davanti lo stereo con il telecomando in mano, come suo solito.
Come è giovane! Con la pelle liscia liscia e un po’ di barbetta nera.
A guardarlo bene, non è che un ragazzo come me. Con due figli, ma pur sempre un ragazzo.
Davanti lo stereo, in piedi, con il telecomando in mano: Sorride.
“Papaaaà!!”



Queen - Forever: http://www.youtube.com/watch?v=iLnlHPGI0zo


venerdì

Ti offro un drink!

Ho incontrato Giuseppe all’aeroporto. Così per caso.
Non ci vedevamo da almeno 15 anni. Come si dice.. strade diverse, giusto?
Io al mio primo giorno di ferie, lui invece rientrava a casa. Non era solo. Mi ha presentato la sua famiglia: Mamma Chiara e due gemellini, deve avermi detto i loro nomi. Saltavano sul tapin roulant dei bagagli, le piccole canaglie.

Lì per lì non sapevo che dire.
La mia età forse qualche mese meno, giocavamo a calcio sotto casa: "Caspita Giuseppe… una moglie e due bambini".
Un po’ tarchiatello rispetto a come lo ricordavo, con qualche capello in meno, ma tutto sommato in forma. Un’espressione felice, serena.
Non so se l’avessi riconosciuto, è venuto lui da me. Io aspettavo il mio bagaglio e mandavo messaggini.
Non devo esser troppo cambiato rispetto a 15 anni fa. Io.

E tu? - mi ha chiesto – Cosa fai nella vita?

Ecco.
Cosa faccio nella vita?
Vado agli aperitivi! Sì è così, vado agli aperitivi.
Bevo aperol spritz con tanto ghiaccio e una fetta d’arancia. Ma non la mangio la fetta d’arancia. E sì che li vedo, io, tanti di quelli che dopo l’ultimo sorso addentano la polpa fino alla scorza. Una volta ho persino visto uno che, la scorza, l’ha mandata giù tutta intera.
Io la fetta d’arancia la pesto. Piano piano, con la cannuccia e con i cubetti di ghiaccio tutto intorno. E’ un lavoro lento, di precisione, quasi compulsivo, che mi rilassa alla fine di una giornata di lavoro.
E poi bevo il succo di arancia rimasto, e l’acqua fredda che si sciolta dal ghiaccio. E di nuovo pesto la fetta.
E Mangio. La pasta da aperitivo che servono agli aperitivi. E’ scotta e condita malissimo, hai presente? Io ci ceno.
Bevo, pesto l’arancia, poi bevo di nuovo, poi mangio e poi parlo.
Se ci vado con gli amici parlo di donne e se ci vado con una donna parlo degli amici. E’ un fatto curioso.
E quando non ho voglia di parlare, ascolto quello che loro dicono e allargo le braccia sullo schienale del divanetto, mi metto più comodo e mi guardo intorno. E vedo camice, belle camice, e tacchi, bei tacchi e altra gente che gioca con le cannucce, nere, come la mia.
Ma di tipi come te Giuseppe non se ne vedono.

E forse adesso, che ci ripenso così all’aeroporto mentre aspetto un bagaglio che non arriva mai, neanche io vorrei vedermi lì, ancora per troppo tempo, a cenare con la pasta da aperitivo, scotta e condita malissimo. Ho quasi voglia di minestrone. Quello cotto a fuoco lento per 50 minuti. Ho voglia di averceli 50 minuti. Voglia di provare a chiedere “allora bimbi, che avete fatto oggi a scuola?”.

Cosa faccio nella vita, Giuseppe?

Mi sono laureato” – ho risposto – “Mi sono laureato e adesso faccio carriera nell’azienda in cui lavoro. Vienimi a trovare se passi dalle mie parti, ti offro un drink! ti lascio il mio numero di cellulare”.

domenica

La risposta potrebbe non essere quella che avevi previsto

Glielo ho detto – “Il rischio che corri quando mi fai una domanda è di ricevere una risposta. E come adesso, la risposta potrebbe non essere quella che avevi previsto”.
“Ti ho solo chiesto se ti manco, cazzo “ - ha esclamato indispettita.

giovedì

La chiamo ogni tanto, le chiedo come sta

Vorrei conoscere Oriana.
Vorrei conoscerla meglio.
Mi piacerebbe scoprire quei piccoli dettagli che darebbero realismo al quadro che ho di lei.

La conosco da due anni e mezzo ormai. Tanti ne sono passati da quel giorno.

Era notte. Ero sul mio scooter. Era verde il semaforo.
Io spedito.
Ricordo solo qualche fotogramma. Due fari provenire da sinistra, dalla parte in cui il semaforo segnava rosso. L’impatto.

Oriana è l'unico testimone.
Ha chiamato lei il 118.

Le ho parlato la prima volta la sera del giorno dopo.
In ospedale. Per telefono.

Oriana era in città, quel giorno, per motivi di lavoro.
Oriana vive lontano da qui.

La sua voce fu la mia medicina di quei giorni.
La sua voce ride. Non so come possa ridere una voce. Io non riuscirei a far ridere la mia voce.
Lei sì. La sua è così, di natura. La senti e pensi che stia sorridendo.

Ero in crisi con Mara in quei giorni. Subivo la sua durezza. Accusavo la sua rigidità.
E così, capita a volte, che un incontro inaspettato ti faccia capire cosa di preciso manca nella tua vita e ad un tratto senti che non ne puoi fare a meno.
Io non posso fare a meno, in una donna, della gentilezza tipica di Oriana, della sua disponibilità, del suo saluto. Un saluto dolce come una carezza.

La chiamo ogni tanto, le chiedo come sta, ci aggiorniamo.
La sua voce mi sorride e io le sorrido di riflesso.
Sono telefonate veloci, ma bastano 3 minuti di lei per riempirmi di ottimismo. Mi fa stare così bene che più volte ho pensato di andarla a trovare.
Ho pensato di arrivare da lei con un fiore. Uno solo. Invitarla a cena e chiederle “cosa ti piace mangiare?”.

Oriana si è sposata qualche mese dopo che l’ho conosciuta. Adesso aspetta una bimba.
Dice che la chiamerà Fabrizia.
E’ un bel nome, Fabrizia è un bel nome.

domenica

"Potresti conoscere"

Ebbene sì, capita anche a me!
Mi lascio andare, di tanto in tanto, ad un’overdose di fotografie su Facebook.
Apro un album di un amico, poi seguo un tag, poi un altro, e poco dopo non so più su chi sono finito.
Guardo le foto degli sconosciuti. Non so cosa mi dia gusto in questo, ma me ne dà, devo ammettere che me ne dà.
Mi piace osservare i luoghi, le espressioni nei visi, le personalità. I caratteri dei soggetti… sono così evidenti. Piccoli particolari! Mi piace osservare i piccoli particolari.

E’ solo un gioco. 10 minuti, non di più.
Giusto una pausa, una distrazione. Poi alla fine non rimane niente.
Al più, forse, la sensazione di un dejavù. Un’amica di un amico, chissà di chi. Qualcuno di già visto per strada? Boh.

Ma niente più. Niente di che. Niente davvero.

Poi l’altro giorno, l’occhio cade nel riquadro del “potresti conoscere”. Quel riquadro in cui il destino ti propone 10 volti estratti a caso da un calderone senza fondo di volti ignoti.
Da dentro una di queste caselline non più grandi di 30pixel per 30pixel, una figura femminile attira la mia attenzione.
Sia mai la persona che cambierà la mia vita. Non che ne avverta l’esigenza, di cambiare la mia vita per l’appunto, ma per fugare il dubbio clicco ed entro.

Oggi è il terzo giorno che riguardo le foto del suo profilo. Non mi era mai capitato di tornare due volte su una “sconosciuta”.
Si chiama Gabry… Gabriella. Ho imparato anche il suo cognome, così posso andare nel modulo di ricerca e posso ritrovarla. Posso guardare ancora le sue foto senza dover aspettare che il destino me la riproponga ancora una volta tra "quelli" che “potrei conoscere”.

In una di queste foto, Gabry non guarda l’obbiettivo. E’ la mia preferita. Ho un debole per gli scatti che non sono pose, ma “momenti”. In quest’altra porta il cane a passeggio, un bel cane. E in quest’altra ancora, abbraccia il suo ragazzo.

Adesso chiunque al posto mio le chiederebbe l’amicizia. Antonio l’avrebbe fatto sicuramente, ad esempio. Lo so, perché è già capitata una situazione simile a lui. Probabilmente, lo avrebbe fatto con l’altro account, quello in cui ha digitato la città al posto del cognome. L’account segreto, insomma… l’account che la ragazza di Antonio ignora che esista.

A voler essere generosi, si può dire che il ragazzo di Gabriella non è un granché a livello fisico. Non spicca.
Le scrive delle citazioni in inglese attraverso i commenti. Forse sono testi di canzoni. Non le conosco. Lei risponde alle citazioni. E' lusingata.
Gli amici cliccano sul tasto like nelle foto in cui sono ritratti insieme.
Un bel quadretto.

Chiudo il profilo di Gabriella.
Torno alle mie attività, la mia pausa è finita.

sabato

Sceglierei il muretto di un lungomare

Non ho mai scritto una frase su un muro.
Anzi ora che ci penso… sì è successo. Alle elementari. Misi un pennarello in tasca e alzai la mano per chiedere di andare in bagno.
Chiusi la porta del WC e disegnai un graffio.
Un cuore.
Deforme. Saper disegnare è una dote che non mi è mai appartenuta.
Un cuore deforme, con dentro il nome di una compagna di classe. La più ambita. Quel nome lo ricordo benissimo ancora oggi. Biondina, con gli occhi verdi. Mai più rivista.

Una dichiarazione d’amore in pieno stile, insomma.
Avevamo 7 o 8 anni.
Gli altri scrivevano “Abbasso Juve” con la W rovesciata. Io scrivevo un nome di donna.

Non ho più lasciato nessun segno in alcun muro.
Lo trovo un gesto “sporco”, invadente, incivile.
Anche “Violento”, se vogliamo.
Senza dubbio vigliacco.

Eppure.
Eppure se dovessi farlo, sono certo che non scriverei di politica, di globalizzazione, di calcio.

Sceglierei il muretto di un lungomare. Uno qualsiasi.
Ci scriverei un estratto di un testo di una canzone. Qualcosa che aggiunga poesia ad un panorama di suo già poetico.

Questa ad esempio.
Suona bene. Suona così.
Ognuno ha il suo piccolo razzo lanciato nel blu dello spazio, con dentro frammenti di sé”.

Forse un giorno lo capirai

Rimuginando ancora sull’impossibile rata da 800 euro al mese, per un impensabile mutuo casa, mi sono chiesto allora cosa ne pensasse Giulio.
Mi sono chiesto cosa ne pensasse Giulio dell’ambizione che ne è scaturita, di diventare uno di quelli che gli anglofoni chiamano “self-made men”: la giacca appesa al finestrino posteriore, la città da bere, i salotti buoni e l’instancabile ritornello “io mi sono fatto da solo”.

E allora ho avuto la sensazione di avere davanti non Giulio, ma “Andy il matto” di “Hollywood” dei Negrita… Andy il matto.. quello che è ventanni che è lì, che ti dice che va bene così, che tanto tutto è troppo e basta quel che hai e forse un giorno lo capirai.

giovedì

Migliori in un qualcosa, che sia uno, e uno per tutti

Ci han detto che domani è il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
E se non ce l’avessero detto, probabilmente, neanche l’avremmo saputo.
In fondo, viviamo tutti i giorni come se quest’Italia, proprio questa, esistesse da sempre o non esistesse da mai. Perché è lì, con la sua copiosa sagoma, sin dai tempi degli etruschi, dei greci, dei romani, e di Dante, di Leonardo, di Galileo e di Mazzini e la Giovine Italia.
E uniti o no, da lì noi veniamo. Poco importa che fossero imperi, comuni, regni e persino granducati.

Ciò nonostante, non credo che non ci sia niente da festeggiare.
Io credo, invece, che ogni occasione sia buona, se può farci sentire più forti, se può farci sentire migliori.

Migliori in un verde.
Migliori in un bianco.
E ovviamente, migliori in un rosso.

Migliori in un qualcosa, che sia uno, e uno per tutti.
Un inno.
Un eroe.
Un discorso. Non uno qualunque. Uno di quelli che fanno storia.

Il discorso del Calamandrei, ad esempio. Il discorso del Calamandrei è uno di quelli che resta.
Entra nella mente e arriva fino al cuore. E te lo porti dentro, da italiano, ovunque tu vada, dovunque tu fugga.
Oggi è l'occasione buona per rileggerselo.

"[...] In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, tutte le nostre sciagure, le nostre glorie.
Sono tutti sfociati qui in questi articoli e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane…
E quando io leggo nell’art. 2 “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”;
o quando leggo nell’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, la patria italiana in mezzo alle altre patrie…ma questo è Mazzini! Questa è la voce di Mazzini!
O quando io leggo nell’art. 8: “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”, ma questo è Cavour!
O quando io leggo nell’art. 5: “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”, ma questo è Cattaneo!;
o quando nell’art. 53 io leggo a proposito delle forze armate: “l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”, esercito di popolo; ma questo è Garibaldi!
E quando leggo nell’art. 27: “non è ammessa la pena di morte”, ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria!
Grandi voci lontane, grandi nomi lontani…
Ma ci sono anche umili voci, voci recenti!
Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro ad ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta.
Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione. "

Buon Compleanno Italia!

sabato

Ho cercato di trovare una spiegazione che potesse andare

La delusione generata dall’argomento “casa” mi ha segnato, mi ha ferito, mi ha privato.
Me lo disse anche Mara, una delle ultime volte, prima che tra me e lei mettessimo un punto (e a capo) :
non sei più lo stesso e non te ne accorgi”.
Lo disse con una vena di tristezza e glielo lessi negli occhi. Negai e mi innervosii.

Ma il fatto è che Mara aveva ragione.

Mi sento costretto a rinunciare al sogno di comprare una casa.
Ho cercato di trovare una spiegazione che potesse andare. Ma non ne ho trovato nessuna.
E non ho tuttora risposte alla domanda: “Chi ha deciso che uno stipendio debba valere poco più di 1000 euro, e una casa debba valere una rata mensile di 800 per 30 anni?”.

Ma non mi sono arreso.
Come spesso capita, è nata una reazione cattiva.
Ho dei progetti. Ho cominciato a lavorarci. Sto lavorando il doppio di quanto non facessi già. Forse alla fine dei conti non servirà a niente, ma non importa.
Bisogna provarci.

domenica

Pensando, per l’ennesima volta, che non ha capito niente

Non essere compresi è demoralizzante.
Se a non comprenderti è il tuo barbiere allora può essere davvero frustante.

E così ritorno a casa, pensando, per l’ennesima volta, che non ha capito niente.
Nel tragitto spero di non incontrare nessuno che io conosca. Sarebbe alquanto imbarazzante.
L’unico rimedio è ficcare la testa sotto il getto d’acqua per rimettermi ai prodigi di un phone e ai miracoli del gel a tenuta forte.

Giulio dice che la pettinatura che il mio barbiere mi applica, corrisponde al modo che il barbiere ha di vedere la mia persona.
Spero tanto che gli altri non mi vedano come mi vede il mio barbiere!

martedì

Pensavo di avere un piano B

Credo di aver perso tanta della mia fiducia sul futuro quando ho mosso il primo passo verso la realizzazione di un sogno: comprare una casa.

Una casa tutta mia intendo, un posto al mondo insomma.
Non che abbia grosse aspettative, mi accontenterei anche di quello che in molti definirebbero “un buco”. Purché sia un “buco” grazioso.
Un angolo di mondo con le tende alle finestre, un tappeto tra il divano e la libreria, una piantana a luce tenue regolabile.
Il minimo insomma.
Prenderei poi un servizio di piatti a forma quadra per la cucina, le bacchette profumate in bagno e un impianto stereo in sala.
Coi giusti tempi penserei infine al forno, il futon in camera e l’abbonamento al National Geographic Channel.

Ma anche i sogni si spengono davanti una proiezione di 800 euro al mese per trentanni. L'impiegato, il family banker si chiama così, ha pronunciato la mia condanna.
Non ce la posso fare, non mi è permesso. Anche eliminando tutte le cene fuori e gli acquisti fuori budget, il mio stipendio non me lo consentirebbe.

Non da solo.

Pensavo che se un giorno dovessi rimanere con il mio vuoto… beh ecco, io pensavo di riempirlo con abiti firmati, una moto sportiva e camminando a pieni nudi sul parquè di casa.
Pensavo di avere un piano B.
Pensavo di avercelo, pensavo di meritarmelo.
Pensavo.

sabato

Basterebbe chiedere

Pronto, ciao Giulio, passi da casa mia stasera? Ci facciamo due spaghetti?”
Giulio non può. Non ha voglia. Giulio è stanco.
Due passi domenica in centro?
No. Neanche. Non è possibile. Ha poco tempo.
E allora basterebbe chiedere.
Chiedere… “Giulio sono sfavato, nervoso, inverso. Pensavo potessimo cazzeggiare, anche un’oretta a limite. Ecco, mi faceva piacere insomma”.
Basterebbe chiedere.
Ma io non chiedo.

mercoledì

Non provo più paura adesso

Come spesso capita, anche stasera, in questa stanza, ci sono solo io e una musica.
Stasera la musica è La Valse d’Amelie in assolo di piano.
Amelie, quella del favoloso mondo… di Amelie, appunto.
Lei!

Quanta nostalgia questa melodia. Così tanta nostalgia da annullare tutto quanto qui dentro.
Via gli orologi, via i telefoni, via tutto, anche i mobili.
Non resto che io, e lei… questa musica.

Sono fuori dal mondo.
Mi ritrovo in un luogo isolato e senza tempo.

Io e questa musica.

Circondato dal niente, niente può accadere.
E alzo il volume di questa notte.
Non provo più paura adesso. Non sono più solo.

Penso di non amarti

Ho appena chiuso la cornetta.
Ho detto la frase che non vorremo mai.
Sentire.
Pronunciare.
“mi spiace, ma penso di non amarti.”

Ho scelto così. Ho scelto la verità. Per lei e per me.
Anche se vuol dire far soffrire.
Anche se vuol dire sentir venir meno qualcosa di buono. Perdere un posto nel mondo.
Basta più vedersi.
Lei ora dirà di sì a quell’altro.

Sono triste adesso. Anche io.

Non lo so. Come dovrei sentirmi?
Come si sentono le ragazze quando lasciano qualcuno?
Lo so, sono io. Sono una frana.

martedì

La mia attuale vita è un monolocale

E’ stata una giornata intensa a lavoro, oggi.
Sono stanco, ma soddisfatto.

Sono entrato in casa e mi sono abbandonato sul letto.
Scompostamente disteso, ho guardato nel silenzio della casa e nella penombra del tardo pomeriggio, ho formulato un pensiero, una verità.
La mia attuale vita è un monolocale.

C’è tutto quello che mi serve e niente di superfluo che non troverebbe posto in pochi metri quadrati.
Tutto è a portata di mano e tutto qui dentro è mio e parla solo di me.

Guardo la partita di calcio in tv, lavoro al computer e ascolto un cd. Una chiamata ai miei dal fisso, un sms ricevuto al cellulare.
E tutto questo contemporaneamente, o quasi.

Il frigo è pressoché vuoto, il freezer è stracolmo di precotti.
Faccio le pulizie di sabato. Mi sveglio all’una la domenica.
Ho un paio di guanti in gomma, accanto il lavabo. Ci lavo i piatti. Sono verdi e profumano.
D’inverno mi copro con un plaid. Ne ho solo uno.

In un universo monodimensionale di monodose, monoporzioni, e monotonia c’è un letto a due piazze.
Ci dormo da solo. A stella marina. Mi addormento a destra, mi risveglio a sinistra. Non ho una posizione fissa.
Ma di inverno… beh d’inverno fa freddo, da solo, in un letto matrimoniale.
Un letto matrimoniale, si sa, è fatto per due.

domenica

Federica dice che funziona

Federica dice che quando il suo mondo è in gradazioni di grigio pensa a chi sta male, a chi è malato, a chi ha più diritto di soffrire.
Federica dice che funziona.

lunedì

Sono una taglia 46

C’è una fase della vita in cui per i tuoi genitori sei troppo piccolo per una storia a lungo termine.
Non è neanche passato un anno che stai con la stessa morosa e per loro sei uno che si sta facendo incastrare, che ha deciso di chiudersi in una cella e gettare le chiavi dalla finestra.

Poi c’è una fase della vita in cui per i tuoi genitori sei troppo grande per continuare con un certo stile di vita.
Rientri all’alba tutti i weekend, ceni solo ad aperitivi, stai al telefono sempre con una diversa.
Ti dicono che non si può bighellonare tutta la vita, bisogna pensare ad una famiglia prima o poi. Responsabilità, giudizio, maturità. Come se non li avessi.

Ecco, io al momento sono proprio su quella sottile linea che divide il troppo piccolo dal troppo grande.
I miei non si esprimono. Dietro le loro domande timidamente indiscrete, c’è profonda indecisione.
Me ne sto comodo in quel varco temporale in cui non sono “troppo” per niente.
Tutto mi sta a misura. Sono una taglia 46. Compro un pantalone, lo porto a casa, strappo l’etichetta e mi veste a pennello sia di vita che di caviglia.

Come è bella la tua valigia rossa

Avevo due ragazzi affianco. Un ragazzo e una ragazza.
E' passata la hostess per il servizio bar e hanno ordinato una bottiglia di spumante e un pacco di patatine.
Le bottiglie di spumante che servono in aereo sono come i bonzai. Uguali in tutto alle bottiglie grandi, ma con una capacità di una lattina di cocacola.
Lo hanno sorseggiato in due calici di plastica e hanno mangiato le patatine.
Ridevano.
Chissà poi perchè. Chissa poi perchè comprare uno spumante al servizio bar di un volo aereo.

Il signore davanti ha reclinato il suo sedile. L'ho odiato. Sommessamente, l'ho odiato.

Nella fila dietro la mia, c'era la ragazza mora dagli occhi verdi.
Era vicino a me mentre eravamo in fila al check-in. Ho pregato il destino che le assegnasse il posto accanto al mio. Il destino ci è andato vicino, ma non abbastanza.
Al ritiro bagaglio le sono andato accanto.
15 interminabili minuti passati in silenzio facendo finta di guardare il nastro trasportatore.
Avrei voluto dirle tutto.
Sarebbe bastato anche "come è bella la tua valigia rossa".

Sono rientrato a casa oggi.
Ho passato qualche giorno in famiglia.

martedì

Immagini già viste, immagini tristi

2011. Primi giorni di un nuovo anno ancora lungo da venire.
Immagini già viste, immagini tristi.
Un feretro trasportato a spalla, giù da un C130 grigio dell'Aeronautica, una bandiera tricolore ad avvolgerlo, il silenzio dell'aeroporto di Ciampino e il silenzio più struggente suonato dalla fanfara.
Gli onori.
E dopo inevitabilmente le riflessioni, pur non essendo, questo, il momento.

"Questi popoli di terre sventurate, dove spadroneggia la corruzione, dove a comandare non sono solo i governanti ma anche ancora i capi clan, questi popoli hanno saputo conservare le loro radici dopo che i migliori eserciti, le più grosse armate hanno marciato sulle loro case: invano.
L'essenza del popolo afghano è viva, le loro tradizioni si ripetono immutate, possiamo ritenerle sbagliate, arcaiche, ma da migliaia di anni sono rimaste immutate.
Gente che nasce, vive e muore per amore delle proprie radici, della propria terra e di essa si nutre.
Allora riesci a capire che questo strano popolo dalle usanze a volte anche stravaganti ha qualcosa da insegnare anche a noi."
Caporal maggiore Miotto, 24 anni.

Già, cosa insegna questo popolo?

sabato

Già saldo sui due uni!

Non sono uno di quelli che vedono nel primo giorno dell'anno, una immensa lampada dei desideri.
E neanche uno di quelli che temono funesti eventi provenire dall'ignoto dei 365 giorni ancora da venire.

Mi sono svegliato alle nove stamani.
Abbastanza tardi per sentirsi completamente rigenerato, abbastanza presto per non perdersi la giornata.

Non ho messo la sveglia.
Ho solo aperto un occhio e anzichè richiuderlo, come farei normalmente in un giorno di festa, ho aperto anche l'altro e d'impeto, senza pensarci due volte, mi sono alzato dal letto.

Trascinandomi sulle pantofole, ho fatto uno sbadiglio lungo quanto il corridoio che porta in cucina.
Tre minuti, il tempo per apprezzare nel profumo del caffè e del latte caldo, il buongiorno che una casa silente sa offrire.

Stringo la tazza e mi scaldo.
Stringo la tazza e mi allontano dal piano cottura. Cospargo l'ambiente della fragranza del mattino. Come fosse incenso.

Mi avvicino alla finestra. Un'occhiata al mondo: dorme.
Accendo la tv. Un documentario naturalistico, li adoro.

Una doccia, per il battesimo del nuovo anno.
Sento i muscoli del collo sciogliersi al getto caldo dell'acqua.
E poi i muscoli delle spalle, e poi la schiena e giù fino ai polpacci.
Le idee e i buoni propositi che si sprigionano, danzano tutto intorno come i vapori che inspiro.

La pelle fuma ancora mentre in accappatoio, davanti lo stereo, scelgo un cd di musica sinfonica.

Faccio pulizia di tutte le tracce della colazione rimaste sul tavolo e guardandomi attorno mi sento pronto a plasmare l'anno arrivato a modo mio.
Sono pronto a prendere per le corna il duemilaundici, praticamente sono già saldo sui due "uni"!