venerdì

Ci ribecchiamo (se passo ancora di qui)

Basta Alessia, dai.

Sì certo che lo ricordo. Era una notte d'agosto, di quell'estate felice in cui mi diplomai.

Eravamo sdraiati in spiaggia, sotto un infinito stellato. Passavamo le ore così, a caccia di stelle cadenti, armati dei migliori desideri da esprimere.
Non ho mai saputo quali fossero i tuoi. Sono forse gli unici pensieri che non abbiamo mai condiviso, per scaramanzia insistevi tu.
Non c'è dubbio, comunque, che i tuoi desideri fossero anche i miei.

Sai Alessia… quei desideri, quei "pensieri belli" fatti sul guanciale prima di dormire… non li ho mai più avuti, non li ho più fatti. Sparirono d'improvviso, quando ci lasciammo, come sparisce d'improvviso un singhiozzo. Stai bene anche senza, ma hai la sensazione che qualcosa ti manchi; rivorresti persino il singhiozzo indietro.
Oggi vorrei tornare ad avere quel genere di desideri per la testa.

In una di quelle sere ci dicemmo che non ci saremmo lasciati mai e se proprio ci fossimo lasciati noi saremmo rimasti amici per la vita.

Lo ricordo bene, vedi? Non è un fattore di memoria, Alessia!
Quanti anni sono passati? 10? Qualcuno in meno? Qualcuno in più? E non fare il conto, che senso ha?!
Guarda tutto intorno a noi, anche questa città non è più quella di allora! Il bar di Giacomo laggiù, ci si metteva in coda per un tavolino. Una volta seduti tenevamo la posizione ad oltranza. Non lo frequenta più nessuno. Sono andati tutti via da questa piazza.
I "nostri", quelli del nostro gruppo intendo, si sono dispersi. Qualcuno si è pure sposato, hai saputo? Ah già me lo hai detto tu!
Io non ho visto più nessuno, chissà dove stanno, chissà chi sono adesso.

Alessia… era un'altra vita, per me, per te, per tutti quanti.
Erano cose che ci dicevamo… così… perché ci amavamo! Forse oggi non le pronuncerei neanche quelle promesse impossibili.

Noi non saremo amici!
Quando è finita la nostra storia, abbiamo bruciato tutto con le fiamme della rabbia e dell'odio. Ricordi quante ce ne siam fatte? Quante ce ne siam dette?

Non ricrescerà più niente su quel terreno, neanche l'amicizia.

Mi spiace.

E' tardi Alessia, devo andare, salutami tuo fratello.
Ci ribecchiamo (se passo ancora di qui).

domenica

ho bisogno di andare giù a prendere una boccata d’aria

Non bisogna affannarsi, ed è sbagliato, subito prima, aumentare progressivamente la frequenza dei respiri.
I medici la chiamano iperventilazione, ed è pericolosa perché mentre sei giù, nei fondali, puoi incorrere in ipossia. In pratica, pensi di stare bene, di avere ancora molto tempo, molta aria, e invece semplicemente, iperventalando, hai messo fuori uso i ricettori che ti ricordano di non avere le branchie ma due polmoni.

Pertanto, mi preparo galleggiando immobile in superficie. Sciolgo col pensiero tutti i muscoli, sgombro la mente e mi concentro su una respirazione profonda, bassa, di ventre, “diaframmatica”.
Guardo il nulla da dentro la maschera che comprime forte sul viso.
Sento il ritmo cardiaco abbassarsi.

E’ il momento.

Cercando di minimizzare lo sforzo, butto giù la testa, inarco il torace e spingo in fuori il bacino.
Ha inizio la discesa.

Irrigidisco le gambe e tengo la nuca quanto più in asse con il corpo. E’ necessario assumere la forma più idrodinamica che il nostro corpo possa offrire.
Vedo le bollicine trattenute dal costume liberarsi e ritornare su. In realtà, io, capovolto, le vedo andare giù. Il mondo mi appare al rovescio.

Le mie orecchie sentono solo la forza irrompente della pressione che aumenta. Mi concentro per compensare.
Rallento la discesa e poi mi fermo, va bene qui.
C’è silenzio.
Il sole penetra sotto forma di un mazzo di raggi di sole. Una raggiera gialla che si muove, sinuosa, in un profondo blu.

Vedo due stelle marine su uno scoglio.
Coloratissimi pesci di piccolo taglio si nascondono tra la vegetazione.

Mi muovo lentamente.
Anche se sono circondato da sola acqua, il mio corpo continua a respirare. I tessuti consumano la riserva di ossigeno dentro i miei polmoni. Per farla durare più a lungo, devo coinvolgere i muscoli strettamente necessari per raggiungere quel branco di pesci, più là, un po’ sopra la mia testa.

Mi devo muovere come loro. Devo pensare come loro.
Per un lunghissimo minuto devo vivere da pesce.
Dopotutto dicono che discendiamo da organismi acquatici. Si spiegherebbe così il riflesso di immersione, quello che permette ai neonati di non affogare se li immergesse in acqua.

Siamo nati qui sotto.
In un brodino primordiale, milioni di anni fa, “tutto” ha avuto inizio.
Però adesso faccio fatica adesso a pensare a qualcosa più grande di me. Sto finendo l’aria.

Ho ancora qualche attimo. Mi capovolgo, nuoto con la pancia verso la superficie. Guardo il cielo blu, da qui sotto appare bianco.
I pesci del branco non hanno più paura di me. Pochi secondi sono bastati per farmi accettare nel loro gruppo, nonostante le mie dimensioni, la mia forma, le mie fattezze, la mia goffaggine.

Qua giù, respiro pace.
Il bello e il brutto stanno lassù. Fuori.
Questo posto è estraneo a tutto. Un’isola felice senza tempo.
Puoi venirci, di tanto in tanto. Non importa chi sei e cosa fai, è aperto a tutti.
Ma solo per uno o due minuti se sei bravo. Per qualcuno di più, per altri anche meno.
Ti sembreranno sempre pochi, vorresti una pausa più lunga.
Vorresti pensarci ancora un po’, vorresti risucchiare le bolle d’aria per rimandare ancora la risalita.
Prima di venirci, vorresti lasciare un post-it sul frigorifero con scritto “Ci vediamo dopo pranzo, ho bisogno di andare giù a prendere una boccata d’aria”.

Chi qui non c’è mai stato, probabilmente, non può capire.
Anzi, a qualcuno fa anche paura andare là dove il piede non può arrivare a “sentire”. Sarà paura di scoprire un posto così bello da non riuscire a lasciare, non appena ci si è accomodati.

Adesso, però, è arrivato davvero il momento di ritornare in me.
Non si può rimandare ancora.
Non posso trattenermi.

Istintivamente indirizzo gli occhi in alto e faccio a gara con le bollicine.
Metto la testa fuori e mi riapproprio velocemente della mia natura.
Respiro. Sorrido.
C'è sempre un viso amico ad aspettarmi, a vigilare per me durante l’assenza.

Fuori nulla è cambiato. Tutto è rimasto uguale, come prima.
Ho solo rubato un po’ di ossigeno e l’ho trasformato in una sensazione di pace che adesso mi pervade dentro.

Recupero ancora qualche secondo e poi ritorno giù.

martedì

Sulla prua della barca a vela

Sulla prua della barca a vela,

la fresca brezza dell’imbrunire accarezzava i miei capelli.
La schiuma delle onde, in mille schizzi, baciava la pianta dei miei piedi.
Il vento sussurrava alle orecchie poesie mai ascoltate. Le vele, per le rime, rispondevano.
Un gabbiano solitario, in volo planare, ha salutato ed è andato via.

Sulla prua della barca a vela,
mi sono sentito invaso da una sensazione di assoluta libertà.
Libertà di spirito.

Con il piccolo trolley colorato in mano

Ho tagliato i capelli,
ho comprato un libro,
e sono rientrato in casa.
Sono uscito pochi minuti dopo, con il piccolo trolley colorato in mano.

E’ tempo di ferie.

mercoledì

Era venerdì ieri?

Ho lavorato tutta la notte, fino a mattina, quando finalmente è suonata la sveglia.
Allora ho sbarrato gli occhi e li ho richiusi. La mano aveva già azionato lo snooze.

E’ già il terzo giorno consecutivo che lavoro nel sonno; e la terza mattina consecutiva che la mia mente, in dormiveglia, cerca di autoconvincersi che sia sabato.

L’illusione dura pochi attimi. Qualche frazione di secondo per recuperare un respiro più veloce, ossigenare il cervello e pormi la fatidica domanda:
ok adesso stammi ad ascoltare, concentrati… era venerdì ieri?

Ovviamente no!

C’è bisogno di ferie.